sabato 23 giugno 2012

Terra! Terra! Terra!...



Ogni verità passa attraverso tre fasi prima di essere riconosciuta. Nella prima è ridicolizzata, nella seconda è osteggiata, nella terza diviene di per se stessa evidente. 
(Arthur Schopenhauer )

Trovare dati ufficiali riferiti al nostro territorio non è impresa da poco. Anzi, a volte è proprio difficile. I motivi di ciò sono molteplici, ma principalmente si possono ricondurre alla scarsa attenzione che si presta, da parte di dirigenti ed amministratori pubblici, alla corretta comunicazione verso la Comunità. Inoltre, che questa non sia la causa, bensì l’effetto di ignavia ed incompetenza, appare del tutto evidente.
Trovare dati che permettano di “leggere” il nostro territorio (e, soprattutto, la sua gestione) è, appunto, difficile, ma non impossibile. Bisogna avere pazienza e tenacia. Per fortuna, non mancano né l’una né l’altra. 
E’ quindi con pazienza e tenacia, che siamo riusciti a trovare uno studio interessante ed approfondito, una vera e propria “radiografia” territoriale della Provincia di Vibo Valentia, che prende in esame il periodo dalla fine degli anni Cinquanta del secolo scorso agli inizi degli anni Duemila.
E’ il “PIANO TERRITORIALE DI COORDINAMENTO PROVINCIALE – PTCP”, pubblicato dalla Provincia di Vibo Valentia  nel febbraio 2004.
Nelle sue tabelle, si “vede” ciò che è apparentemente scontato: il degrado (a 360°) in cui versano Vibo Valentia e il suo territorio non piove dal cielo. Così come non è il frutto di una notte di follia… E’ un percorso lungo e quotidiano, che dura da decenni. E nel frattempo il territorio, parafrasando Pablo Neruda, lentamente muore. 
Un territorio violentato da politiche scellerate, sciagurate e criminali. Una “violenza”, cui nessuno può dichiararsi privo di connivenza, se non proprio di attiva partecipazione.
In esso, appare infatti evidente come, nei 40 anni analizzati, gli amministratori, i dirigenti ed anche i cittadini si siano gradatamente, ma incessantemente, trasformati da custodi del suolo nei suoi predatori. E questo processo, purtroppo, non è rallentato nè men che meno si è fermato nell’ultimo decennio, non “coperto” dall’analisi in questione.
Allora diventa importante, se non doveroso, studiarli bene questi dati. Il primo obiettivo, quindi, deve essere quello di “guardare in faccia la realtà” vibonese. 
Definiamola pure “Operazione verità”:  per capire cosa ci riserva il futuro e come possiamo migliorarlo in maniera sostenibile, occorre conoscere “lo stato delle cose”. E da qui partire, per trovare le soluzioni sostenibili ed opportune. Piaccia o non piaccia.

Una delle cause principali del degrado di Vibo Valentia – e del suo dissesto idrogeologico – è riconducibile senza dubbio al consumo eccessivo di territorio, la sua urbanizzazione selvaggia, la sua antropizzazione squilibrata e, in molti casi, scellerata.

Ovviamente, ognuno è libero di dire “me ne frego”. Oppure affermare, come ha fatto qualcuno in un forum: “Boh, io faccio il possibile per consumare la mia quota finché ce n’è. Prima che ce la fottano tutta i cinesi e gli indiani”.  
Di sicuro, nessuno, con le sue scelte o non scelte - per ignavia, incompetenza o, peggio ancora, per mera speculazione -, può mettere a rischio il territorio e la vita di altre persone.
Allora, i “numeri” ci aiutano a capire quali e quanti errori sono stati commessi. Ci aiutano a non ripeterli. E, infine, ci aiutano a capire quali possono essere le “reali” soluzioni applicabili.
Nel “distretto” territoriale di Vibo Valentia, definito nello studio “Altopiano di Vibo Valentia”, dalla fine degli anni Cinquanta del secolo scorso all’inizio degli anni Duemila, si è passati da un’occupazione complessiva di suolo per usi urbani di 824,3 ettari (pari al 3,4% della superficie totale) a 2550,3 ettari (10,6% della superficie totali). Ciò vuol dire che, nel periodo, si è avuto un incremento di occupazione di suolo pubblico per usi urbani pari al 209,4%!
Tale incremento sproporzionato dell’utilizzo del suolo urbano, non è “giustificato”, dal punto di vista della sostenibilità e dell’equilibrio territoriale, nemmeno dal fatto che, nel comune di Vibo Valentia, nei quarant’anni presi in considerazione dallo studio in esame, si sono sviluppate le due aree industriali sorte a Vibo Marina e nella zona dell’aeroporto militare di Vibo Valentia. Infatti, lo stesso studio evidenzia come le aree utilizzate per funzioni non residenziali rappresentano meno del 14% del totale.
Altro indicatore interessante è quello che evidenzia come, nei 40 anni presi in considerazione, il consumo di suolo sia passato da 136,4 mq/ab 374,1 mq/ab. Un incremento di ben il 237,7%! 
Ciò si spiegherebbe, in termini di sostenibilità se, nello stesso periodo, la popolazione fosse aumentata proporzionalmente. Invece, i dati ISTAT dal 1961 al 2001, ci dicono che la popolazione dell’ “Altopiano di Vibo Valentia” è aumentata di 7.730 abitanti. Cioè, di “solo” il 12,8%.
Inoltre, va considerato che nello stesso periodo si è passati da un modello costruttivo prevalentemente di tipo “unifamiliare” (ovvero, a bassa densità abitativa, che quindi occupa molto suolo per poche persone) ad un modello costruttivo prevalentemente di tipo “condominiale” (che quindi, in proporzione, occupa meno territorio in proporzione al numero di abitante, incrementando dunque la densità abitativa).
A questo punto, le cose cominciano a farsi più chiare. Abbiamo un incremento del consumo del suolo del 237,7% ed un incremento della popolazione, nello stesso periodo, del 12,8%. Il territorio utilizzato per funzioni non residenziali rappresentano meno del 14%. 
Quindi, si deve rilevare un graduale abbandono dei nuclei storici e una dispersione delle residenze nel territorio agricolo.
Se a questi dati inequivocabili aggiungiamo lo scarso utilizzo del patrimonio edilizio esistente, che evidenzia come oltre il 35% delle abitazioni risultano non occupate - dato non giustificabile con i flussi migratori della popolazione, nello stesso periodo storico -, allora capiamo come il “modello”  di urbanizzazione vibonese sia dispendioso dal punto di vista dell’uso e della gestione del territorio. 
Soprattutto, appare evidente come la tutela del territorio non può essere relegata al semplice pensiero ambientalista. Quanto, invece, essa sia diventata una questione vitale, anche per chi ambientalista non è. 
Una questione da affrontare con determinazione ed urgenza, da parte di amministratori seri e competenti. Perché per un grave malanno c’è un tempo nel quale la prevenzione ha ancora un senso prima che i sintomi divengano incurabili. Quindi bisogna fare qualcosa. Adesso. Dopo sarà troppo tardi. 
Bisogna uscire dagli schemi, dal conformismo ideologico, dalle soluzioni semplificate, dalla comodità, dal piccolo o grande interesse, dall’ignoranza, dalla supponenza.
Bisogna pensare a un progetto che parta dalle esigenze dei cittadini di oggi e di domani.
Pensando ai modelli virtuosi del Nord Italia e dell’Europa continentale non solo quando bisogna “vendere” ai concittadini il progetto revamping CDR dell’Italcementi... Ma ispirandosi agli stessi modelli virtuosi anche in tema di città con aria più pulita, con più verde, con mezzi pubblici più efficienti, con più spazio per i piedi e le biciclette, con più risparmio energetico, con meno rifiuti, con meno automobili, con meno consumi superflui. 
Bisogna avere il coraggio di fermare la cementificazione, adottare un piano regolatore a crescita zero, bloccando le nuove costruzioni residenziali o industriali su terreni agricoli e forestali.
Bisogna subordinare il rilascio di nuove licenze esclusivamente per ristrutturazione e riqualificazione estetica ed energetica, con obbligo di installazione di pannelli fotovoltaici e solari termici e fabbisogno energetico non superiore a 50 Kwh/m2/anno.
Bisogna preferire alla nuova costruzione di infrastrutture la manutenzione continua e capillare di quelle esistenti.
Bisogna mettere la ricchezza sociale prima della ricchezza economica.
Bisogna ricreare i legami fisici e sociali tra città, territorio extraurbano e piccoli centri, fermando la cementificazione, promuovendo la diffusione equilibrata di energie rinnovabili, i circuiti di produzione di cibo locale, la salvaguardia del paesaggio, la consapevolezza dei limiti. 
Bisogna pensare al carattere di irreversibilità delle scelte: ogni grammo di CO2 in più nell’atmosfera, ogni metro quadrato di cemento in più e di suolo in meno, ogni capriccio al posto di una reale necessità avranno conseguenze anche gravi nel tempo e nello spazio.
Bisogna fare tanta manutenzione e poche inaugurazioni, mettendo davanti a tutto la cura dei beni comuni, l’ambiente, la sanità, l’istruzione e la preparazione dei cittadini ad affrontare nuove scarsità.
In poche parole: bisogna amministrare CON i cittadini.
E’ questo l’unico modo per proteggere la società dalla trappola della barbarie, che sempre emerge quando la torta diventa più piccola. 
Utopia? Proprio per niente. E’ una realtà già in essere, proprio in alcune di quelle realtà di cui ci si riempie la bocca quando si cerca di “vendere” alla cittadinanza decisioni sciagurate come il “pacchetto CDR, cave e porto” in favore del gruppo Italcementi.
Ed una dimostrazione è questo piccolo documentario, che contiene un' intervista a Domenico Finiguerra, Sindaco di Cassinetta di Lugagnano (MI), il quale è consapevole che amministrare un territorio, oggi, è una responsabilità enorme. Consapevole che sulle sue spalle grava non solo il giudizio dei suoi elettori (non sempre informati, non sempre onesti, che vogliono solo risposte concrete per oggi), ma pure quello delle generazioni più giovani e di quelle ancora a venire, che lo condannerebbero senza pietà o lo ringrazieranno, perchè dalle sue scelte dipenderà il loro benessere.


 Il suolo è la nostra assicurazione sul futuro: valenza estetica del paesaggio e attrattiva turistica, ma anche (e soprattutto) garanzia di produzione alimentare di prossimità anche in tempi di scarsità energetica, sede irrinunciabile di chiusura dei cicli biogeochimici, dalla depurazione dei reflui organici civili e agricoli al sequestro di CO2 per limitare i cabiamenti climatici, dall’azione di filtro delle acque a fini potabili al contenimento degli eventi alluvionali, dalla produzione di materie prime vegetali alla biomassa combustibile.

Per questo motivo è importante tenere sempre a mente le parole di Winston Churchill: "È un peccato non far niente con il pretesto che non possiamo fare tutto".

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